Roberto Villetti, 24 agosto 1944 – 14 settembre 2019

di Alessandro Roncaglia

Roberto inizia a interessarsi di politica fin dal ginnasio, ma l’inizio di un impegno totalizzante – come ricorda Giancarlo Venturini – si ha quando i due compagni di scuola assistono all’assassinio di Paolo Rossi sulla scalinata della Facoltà di lettere della Sapienza, nell’aprile 1966: un delitto reso possibile dalla colpevole inerzia della polizia e del rettorato di fronte alle ripetute violenze fasciste nell’università. Segue la partecipazione alle occupazioni, fino alla cacciata del rettore Papi, e l’iscrizione al Partito socialista, regolarmente rinnovata per i 53 anni successivi.

Roberto, che si era iscritto a Economia e commercio, nel frattempo passa a Scienze statistiche, attratto dall’insegnamento di Paolo Sylos Labini e dall’idea che per studiare bene l’economia come scienza sociale occorrono, oltre a un maestro trascinatore, buone basi matematiche e statistiche. Durante l’occupazione di Statistica si forma un piccolo nucleo di amicizie, con Carlo Del Monte (che diventa professore a Perugia e con il quale Roberto si laureerà anni dopo in Scienze politiche, approfittando di una malattia che lo costringe a ridurre temporaneamente l’impegno politico) e con me; durante le occupazioni del 1968 si aggiunge Marco Visalberghi. Fuori delle occupazioni, collaboriamo a due settimanali socialisti, L’Opinione (nata nel marzo 1969, nella quale Roberto presto diviene responsabile dei servizi economici) e più tardi Aut (nata nel 1972), entrambi diretti da Luigi Gherzi: esperienze molto interessanti, anche se di breve durata, per i vivaci dibattiti redazionali e per la spinta a ragionare in gruppo sull’attualità politica ed economica.

Tra le carte di Roberto, che saranno conservate a cura della Fondazione Nenni, vi sono alcuni documenti scritti all’epoca delle occupazioni; in uno di questi prefiguriamo una transizione del capitalismo contemporaneo da una accumulazione quantitativa, tipica della fase del capitalismo industriale, a una accumulazione ‘qualitativa’, centrata sulla ricerca e sul conseguente cambiamento tecnologico, con una crescente importanza dei servizi e al loro interno dell’istruzione e con una modifica delle relazioni di potere all’interno della società. Erano temi che avremmo voluto approfondire anche sul piano statistico, ma il progetto viene rinviato: Roberto viene nominato responsabile dell’ufficio studi della Federazione Giovanile Socialista e si dedica a tempo pieno all’attività politica. Tanti anni dopo, all’epoca del suo ritiro dalla politica, riprendiamo a più riprese il progetto di un libro sul potere; a gennaio di quest’anno mando a Roberto una scaletta completa, piuttosto ampia, che comporta qualche anno di lavoro. Mi manda qualche commento, in particolare l’invito a dare maggiore importanza ai nuovi media, diventati sempre più importanti, e il suggerimento di scrivere il libro assieme a mio fratello.

La cooptazione di Roberto nella FGSI avviene in modo allora non insolito, oggi del tutto inusuale: l’allora segretario Roberto Cassola convoca alcuni giovani socialisti per un colloquio, per poi scegliere il migliore. Roberto mi chiede di accompagnarlo, e così ci troviamo seduti a un lato di un tavolo, con dall’altro lato cinque o sei ‘anziani’.

Sul piano dell’attività politica concreta, l’incarico di responsabile dell’ufficio studi è il più ‘leggero’, adatto a un esponente della corrente lombardiana, sempre minoritaria nel partito. Roberto lo trasforma rapidamente nel centro motore della FGSI, producendo documenti su documenti nei campi di attività più diversi. Fra questi, un lungo documento sull’intervento sovietico a Praga nell’agosto 1969, frutto di una lunga nottata di lavoro e pubblicato su Giovane sinistra, che ci trovammo a discutere in un confronto pubblico con Claudio Napoleoni e Franco Rodano davanti ai maggiorenti del PCI. Roberto diviene così il candidato naturale alla successione di Cassola alla direzione della FGS, e viene eletto segretario nel congresso di Venezia del 1973; resta in carica fino al 1977. In questa veste partecipa alle riunioni della direzione del partito, quindi al dibattito sulle scelte politiche di fondo del Partito Socialista. Come ricorda Paolo Franchi, nelle tesi programmatiche che presenta al congresso di Venezia Roberto è il primo a parlare di alternativa di sinistra, in contrapposizione alla linea del PCI (e della FGCI) del compromesso storico.

Sul piano economico Roberto si considera allievo di Sylos Labini; su quello politico, di Riccardo Lombardi: né succube dei comunisti né anticomunista, favorevole alla politica delle riforme (“Lotta dura/ senza paura/ per le riforme/ di struttura”).[1] Le riunioni di corrente (alle quali mi è capitato talvolta di partecipare, pur senza essere iscritto al PSI, come ‘esperto’ di economia) erano davvero aperte al dibattito: come Sylos, Riccardo Lombardi esigeva dai suoi seguaci autonomia di giudizio e nessuna remora nell’esprimere le proprie opinioni, fino ad accettare tranquillamente di trovarsi in minoranza su questo o quell’argomento.

Le convinzioni principali su cui si basa la posizione politica di Roberto sono interne a questo filone di riferimento. Innanzitutto, come ricorda Bobbio (del quale Roberto conserva alcune importanti lettere tra le sue carte), esiste una differenza netta tra destra e sinistra: la sinistra tende a una maggiore eguaglianza (di reddito, di ricchezza, di opportunità, di potere), la destra invece sostiene che le diseguaglianze sono la conseguenza inevitabile (e ‘giusta’) delle differenti capacità individuali. In secondo luogo, il riformismo implica il rifiuto dell’idea che sia possibile raggiungere un’eguaglianza perfetta (come hanno cercato di fare, con costi umani enormi, i kmer rossi in Cambogia o le camicie rosse della rivoluzione culturale in Cina); in realtà, come osserva Sen, le dimensioni su cui valutare le diseguaglianze sono numerose, e la ricerca della massima eguaglianza possibile su una sola di queste può portare a ingiustizie notevoli su altre dimensioni. Quel che conta, quindi, è la direzione lungo cui si cammina. In terzo luogo, il politico deve essere consapevole che senza un adeguato sostegno di forze sociali non si può ottenere nulla; di qui la politica ‘lombardiana’ delle riforme di struttura, cioè il tentativo di realizzare alleanze sociali che permettano di fare un passo (una riforma) nella direzione desiderata, ottenendo uno spostamento in senso più egualitario nella distribuzione del potere politico stesso che può poi costituire la base per un passo (una riforma) successiva. Naturalmente, le riforme di struttura sono quelle che portano uno spostamento verso sinistra, cioè verso una distribuzione meno diseguale del potere; quelle che portano in una direzione opposta (e ne abbiamo viste tante…) sono controriforme di struttura. In quarto luogo, data la complicazione delle scelte da compiere sia per quanto riguarda gli obiettivi sia per quanto riguarda le strategie, il dibattito aperto è indispensabile alla vita politica: i partiti debbono essere organizzazioni aperte, contendibili, con posizioni interne flessibili, non  strutturate in correnti cristallizzate dominate dai ‘signori delle tessere’; i politici devono essere onesti nelle loro prese di posizione, da adottare in base al ragionamento e non in base alle convenienze del momento, quindi rifuggendo da ogni demagogia. L’impegno politico richiede professionalità, ma non deve trasformarsi in una professione su cui basarsi per ottenere un reddito il più possibile duraturo; in caso di necessità, il politico deve saper fare un passo indietro.

Tra le tante iniziative di Roberto segretario della FGSI ricordo un viaggio ad Hanoi sotto le bombe. Di ritorno, con i nervi un po’ scossi dalle bombe, viene a trovarmi a Cambridge; assieme andiamo a trovare Piero Sraffa, e Roberto ha con lui una discussione vivacissima – sulla quale siamo tornati tante volte negli anni successivi, anche di recente – sulla definizione di società socialista. Come anni più tardi, quando da direttore dell’Avanti! andò a intervistare Arafat, condotto bendato e sotto la minaccia dei mitra in una località sconosciuta tra Libano e Siria, Roberto confessava di avere avuto paura; ma riusciva a vincerla con l’autocontrollo e la forza di volontà che ha manifestato anche sotto le minacce delle BR, alle quali riservava una ironia talvolta un po’ macabra, e di fronte alla malattia negli ultimi anni.

Dell’epoca delle BR ricordo un episodio. Roberto era entrato nel mirino con la nomina a direttore dell’Avanti! e si era trasferito da Via San Marino, dove viveva con la madre (e per vari anni con la sorella), a via Somalia senza spostare la residenza e senza dare a nessuno, se non a pochissimi amici, il suo recapito. Un giorno due signori vestiti da poliziotti si presentano a casa della madre per chiedere il suo nuovo indirizzo; la signora Laura li persuade di non esserne a conoscenza, recitando la scena della madre abbandonata dal figlio ingrato, e avverte Roberto. Lui mi chiede di passare a tranquillizzare la madre – che in realtà aveva una tempra d’acciaio e non aveva alcun bisogno di sostegno, anche se come sempre lieta di fare due chiacchiere – e si rivolge al capo della polizia dell’epoca, Parisi, accertando che i due erano finti poliziotti. Da quel giorno, a Roberto viene assegnata una scorta, alla quale però presto rinuncia.

Quando l’ho conosciuto, Roberto abitava a via Chiana, con la madre e la sorella. Il padre se n’era andato di casa quando Gabriella e Roberto erano piccoli, trasferendosi a Genova e creandosi un’altra famiglia. La signora Laura, maestra d’asilo (è stata per un anno maestra d’asilo anche di mia figlia, subito prima di andare in pensione: una perfetta combinazione di dolcezza e di fermezza), aveva tirato su – posso solo immaginare con quale fatica – due ragazzi estremamente intelligenti (Gabriella diventerà professoressa universitaria di architettura) ma anche dotati di un carattere forte e di un fortissimo spirito di indipendenza. Erano diversi invece per la vivace comunicabilità di Gabriella, cui si contrapponeva il pessimismo esistenziale (alla Woody Allen) e il riserbo di Roberto. Il desiderio di reciproca indipendenza tra fratello e sorella si scontra con le vicissitudini della vita: Roberto assisterà con affetto la sorella in occasione della sua lunga malattia, come più tardi farà con la madre negli anni della vecchiaia. Tra le sue carte è conservato il ricordo commosso della madre, letto in occasione dei funerali.

Dalla Federazione giovanile Roberto passa nel 1977 a MondOperaio, come condirettore nella fase d’oro della rivista, diretta da Federico Coen (con la fondamentale collaborazione di Luciano Cafagna). Per volontà di Roberto, mi trovo anch’io a far parte della redazione; anche in questo caso veniamo sottoposti a un meticoloso ‘esame di ammissione’ da parte di Luciano Cafagna, che generosamente ci promuove a pieni voti. Fallisce invece il tentativo di Roberto di candidarsi al consiglio comunale di Roma: è considerato – giustamente! – troppo poco spregiudicato per quell’incarico.

Risale a questo periodo il Quaderno di MondOperaio (n. 8, 1978) su Socialismo e divisione del lavoro: una accurata raccolta di saggi sull’argomento, con un’ampia prefazione (alla cui stesura, come Roberto indica, ho partecipato), che ha all’epoca una buona diffusione e che ancora oggi risulta richiesta in rete. Con una concezione riformista, il riconoscimento dell’impossibilità di superare il lavoro costrittivo viene accompagnato da indicazioni sulle possibilità di ridurlo e di limitarne il carattere negativo, fino alle proposte di Ernesto Rossi, riprese da Sylos Labini, di un esercito del lavoro (rispetto alle quali Roberto era alquanto scettico, mentre io ero decisamente a favore). Su questi temi siamo tornati assieme in un saggio scritto nel 2007 in onore di un altro allievo di Sylos Labini e comune amico, Michele Salvati.[2]

A MondOperaio, Roberto è al centro di una rete di relazioni con i maggiori intellettuali dell’epoca e con tanti giovani promettenti, socialisti e non. In particolare, tramite la rivista viene tenuto aperto un canale di confronto politico e culturale con il Partito comunista. Questa rete di relazioni viene conservata e sviluppata quando Roberto si trasferisce all’Avanti!, come vicedirettore ‘lombardiano’ con il direttore ‘craxiano’ Ugo Intini. Le discussioni sono inevitabili, ma tra due persone per bene, che nel complesso concordano sui fondamenti anche se non sempre sulla strategia e sulla tattica, si stabilisce un clima di collaborazione e un’amicizia che durerà fino agli ultimi giorni: Roberto mi affida ai suggerimenti di Ugo per le scelte da prendere sulla destinazione delle sue carte.

Assai più complesse sono le discussioni con Craxi, segretario del partito, quando Roberto diventa direttore del giornale, nel 1989. Roberto cura, con il sostegno di Craxi, una riorganizzazione del giornale, resa difficile anche dai desideri di carriera di alcuni giornalisti e dalle aspirazioni all’assunzione di alcuni collaboratori esterni; ma sul piano politico, nella difficile stagione che si sta aprendo, le tensioni con il segretario del partito sono forti e portano alla fine, nel 1992, alle dimissioni di Roberto, che avrebbe voluto fare del quotidiano un centro di confronto politico e culturale, aperto alla collaborazione di intellettuali di tutti gli orientamenti, accettando quindi la presenza anche di voci critiche sulla linea ufficiale del partito.

Roberto è ipergarantista: una posizione difesa in discussioni con tanti amici (tra gli altri, con me, con mia madre e mio fratello, ma anche, credo, in scambi epistolari con Bobbio e Galante Garrone) e conservata fino alle telefonate dell’ultima estate. Quando viene arrestato Andrea Parini, all’epoca segretario del PSI lombardo e prima successore di Roberto come segretario della FGSI (e Andrea ricorderà l’esame al quale, rispettando la tradizione, lo abbiamo sottoposto prima della sua elezione davanti a una pizza napoletana), andò in televisione per testimoniare la sua totale fiducia nell’onestà di Andrea, rifiutandosi di discutere di qualsiasi aspetto politico della situazione – le responsabilità penali, ripeteva, sono personali, e le commistioni tra il piano politico e quello giudiziario sono immorali. (Andrea fu poi assolto dall’accusa di corruzione.) Un sostegno analogo lo diede, anni dopo, a un altro caro amico, Ottaviano Del Turco, nonostante un’importante differenza di opinioni sulla strategia politica: dopo la partecipazione congiunta alla fondazione dei Socialisti Italiani nel 1994, Ottaviano è, nel 1998, favorevole alla confluenza nel PD, mentre Roberto ed Enrico Boselli (che era stato successore di Parini alla FGSI) fondano lo SDI. Le posizioni garantiste di un socialista integerrimo non avrebbero dovuto essere confuse con le posizioni di un corresponsabile del malaffare, come invece fecero alcuni avversari politici; ricordo un attacco pubblicato su Il Ponte, all’epoca della sua candidatura in un collegio toscano, al quale ottenni di poter replicare grazie all’appoggio di Sylos Labini, che pur non condividendone affatto il garantismo estremo stimava l’onestà intellettuale di Roberto.

Nella fase della Seconda Repubblica Roberto è deputato per tre legislature, dal 1996 al 2008; vicepresidente della Commissione finanza della Camera (con lunghe discussioni tra noi sulla ’tabella C’ della legge finanziaria, che consideravo fonte di possibili rilevanti tagli alla spesa pubblica), capogruppo della Rosa nel Pugno, vicesegretario dello SDI. Altri meglio di me potranno fornire il resoconto di questa fase; in quel periodo, per motivi personali, avevo ridotto di molto il mio impegno – sempre mediato da Roberto – nell’attività politica, al punto di rifiutare le sue proposte di candidarmi a deputato, per due volte, e a ministro, per una volta.

Ricordo bene, comunque, il tentativo di trovare basi culturali per l’alleanza con i Verdi, prima, e con i Radicali, poi. In tutti e due i casi è d’ostacolo l’attribuzione ai socialisti di una posizione marxista, residuo in effetti di una tradizione lunga ma ormai da tempo superata a favore di una moderna concezione di socialismo liberale, sulla scia della tradizione di Carlo Rosselli e del Partito d’Azione. Risulta difficile però spiegare ai Verdi che tra i primi ambientalisti vi era stato John Stuart Mill, uno dei padri del socialismo liberale; o che il progresso sociale e civile era compatibile con una posizione ambientalista come quella della premier laburista norvegese Gro Brundtland, che aveva sviluppato la tesi dello sviluppo ecologicamente sostenibile, ma non con l’ambientalismo reazionario delle tesi della scarsità imminente delle risorse naturali, difeso dal Club di Roma. L’accordo si fa, ma è un accordo tattico e non strategico, quindi di breve durata.

L’accordo con i radicali che porta nel 2005 alla costituzione della Rosa nel Pugno sembra nascere meglio. Pannella accoglie con grande calore la relazione di Marcella Corsi al congresso costitutivo della nuova alleanza, che (lungamente discussa con Roberto e con me) richiama il Partito d’Azione, Ernesto Rossi e Paolo Sylos Labini come riferimenti per la confluenza della tradizione socialista e di quella liberale-libertaria, richiamando anche i temi ambientali e gli ideali della parità di genere. Ma la tenuta nel tempo di un progetto strategico di questo tipo avrebbe implicato la rinuncia, da parte radicale, alle provocazioni unilaterali di cui Pannella e i suoi seguaci erano maestri, e soprattutto la chiara differenziazione dal progetto neoliberista che, sulla scia del mito della mano invisibile del mercato, si stava ormai affermando in tutto il mondo, sulla scia di Reagan e della Thatcher.

Nonostante tutto, i due accordi sono due capolavori politici di Roberto e dei suoi amici, in particolare Enrico Boselli. Permettono al movimento socialista di continuare a esistere in forma organizzata di partito e, se fossero state considerate alleanze strategiche, l’una e l’altra assieme avrebbero potuto permettere il rilancio di una forza socialista autonoma e moderna, di cui tuttora si sente la mancanza.

Nella preparazione delle elezioni del 2008 il rifiuto da parte del PD di un’alleanza che non fosse un asservimento dei socialisti porta alla presentazione di liste autonome di un rifondato Partito Socialista e alla sconfitta con il mancato superamento della soglia di sbarramento elettorale. Roberto decide il ritiro dalla vita politica. Nello stesso periodo si ammala di cancro, si trasferisce a Ostia, tronca i rapporti con il suo vecchio mondo mantenendo solo contatti prevalentemente telefonici con pochissimi amici. Credo che la sua ultima apparizione ‘pubblica’ sia al funerale di mia madre, nel marzo 2009.

Di fronte al mare di Ostia avvia il progetto di una storia del Partito Socialista negli anni ’50, che considera una fase cruciale. Legge, ascolta musica. Quando ci sentiamo non vuole domande sul suo stato di salute; parliamo di politica, di economia, di esecuzioni musicali.

Le poche righe del suo testamento, firmato poco più di un mese prima della sua morte, si chiudono con un richiamo all’impegno di tutta la sua vita: “Il mio ricordo va alle compagne e ai compagni con i quali ho condiviso gli ideali di giustizia e libertà del socialismo italiano”.

(articolo in uscita su MondOperaio, novembre 2019)


[1] Cfr. A. Roncaglia e R. Villetti, “Riccardo Lombardi e la strategia delle riforme”, in A. Ricciardi e G. Scirocco, curatori, Per una società diversamente ricca. Scritti in onore di Riccardo Lombardi, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2004, pp. 215-20.

[2] A. Roncaglia e R. Villetti, 2007, “Divisione del lavoro, capitalismo, socialismo, utopia”, in G. Dosi e C. Marcuzzo, curatori, L’economia e la politica. Saggi in onore di Michele Salvati, Il Mulino, Bologna