La crisi del debito sovrano

Riportiamo l’intervento di Alessandro Roncaglia alla Tavola rotonda su “La crisi economica: problemi e prospettive”, tenuta presso l’Accademia Nazionale dei Lincei, il 12 gennaio 2012.

La crisi del debito sovrano

1. Introduzione

Com’è noto, la condizione di sostenibilità del debito pubblico – intesa come stabilità della quota del debito pubblico sul Pil – dipende in modo cruciale dal confronto fra il tasso d’interesse e il tasso di crescita (e non fa differenza, naturalmente, se consideriamo i due tassi entrambi in termini monetari, o entrambi in termini reali).

La formula che possiamo tenere a mente è ∆d = – s + d (r – g)/(1+g), dove d è il rapporto debito-Pil, s è il surplus primario (saldo del bilancio pubblico detratte le spese per gli interessi sul debito), r è il tasso d’interesse e g è il tasso di crescita. Abbiamo quindi quattro variabili rilevanti; le due principali sono il tasso d’interesse e il tasso di crescita; la differenza tra i due, assieme al rapporto debito-Pil, determina il livello del surplus primario necessario per garantire la sostenibilità.

In condizioni normali, la differenza tra tasso d’interesse sui titoli del debito pubblico e tasso di crescita dell’economia è nulla, per periodi abbastanza lunghi è stata anche negativa; questo ha permesso di mantenere il controllo del debito pubblico senza grossi sacrifici.

Tuttavia, qualcosa è andato storto, determinando l’insorgere di una crisi del debito sovrano, avviata in Grecia verso la fine del 2009 per poi contagiare Irlanda, Portogallo e Spagna e, da fine giugno 2011, anche l’Italia. La crisi ha assunto la forma di un aumento degli spread sui titoli del debito pubblico di questi paesi rispetto al titolo di riferimento, il bund tedesco. La politica monetaria della BCE, la Banca centrale dell’area dell’Euro, ha continuato a tenere bassi i tassi d’interesse, che anzi si sono ridotti in Germania e negli altri paesi che non hanno registrato aumenti dello spread (tanto che in Germania un’asta di titoli a breve ha fatto segnare un rendimento negativo, anche se minimo). Tuttavia in altri paesi i tassi d’interesse sono rapidamente aumentati di centinaia di punti base, rendendo insostenibile la situazione del debito pubblico.

Per valutare la situazione, provo a considerare rapidamente tre questioni: come mai sono aumentati gli spread, quali sono le implicazioni del loro aumento, quali sono le prospettive. Le tre questioni sono collegate, quindi è difficile affrontarle separatamente.

2. Gli spread

Per spiegare gli spread, dobbiamo ricorrere alla teoria keynesiana dei mercati finanziari. Keynes rileva come in questi mercati gli operatori decidono sull’allocazione dello stock di ricchezza, che in ogni dato momento è incomparabilmente più ampio dei flussi di nuova offerta e nuova domanda. In ogni momento gli operatori possono decidere di vendere o di acquistare titoli. Lo fanno continuamente, puntando sui guadagni che possono derivare dalle variazioni di prezzo dei titoli, anche variazioni modeste, nel breve periodo. In sostanza, l’operatore non si chiede se il titolo decennale verrà rimborsato a scadenza o quanto renderà nell’arco della sua vita, ma se domani, o tra un’ora, il suo prezzo sarà maggiore o minore di adesso; nel primo caso compra, nel secondo vende.

Tutti gli operatori ragionano in questo modo, per cui il prezzo sale se gli operatori si attendono un suo aumento nel futuro immediato, qualsiasi andamento prevedano per il futuro remoto; viceversa il prezzo scende se gli operatori si attendono una diminuzione. Dato che le decisioni vengono prese in questo modo, il prezzo si muove verso l’alto o verso il basso a seconda che la maggioranza degli operatori (ponderata per le attività che ciascuno di loro muove) ritenga che vi sarà un aumento o una diminuzione del prezzo; quindi ciascun operatore, indipendentemente dalle sue convinzioni personali su quello che dovrebbe essere il prezzo giusto nella situazione, prende le sue decisioni sulla base delle sue previsioni su quello che prevedono gli altri. Keynes paragona questa situazione a quei concorsi di bellezza che venivano lanciati dai giornali popolari, in cui si chiede ai lettori di indicare tra varie fotografie quella della ragazza più carina, promettendo un premio estratto tra tutti quelli che avranno indicato la vincitrice. Quel che succede, ovviamente, è che ciascun lettore indica non la ragazza che lui personalmente considera più carina, ma quella che immagina verrà considerata più carina dalla maggioranza degli altri, o meglio quella che ritiene che la maggioranza dei lettori riterrà che la maggioranza dei lettori riterrà la preferita. Può accadere così che ciascuno individualmente preferisca la bruna, ma che tutti indichino la bionda.

Di qui una forte instabilità: appena cambia il vento, tutti cambiano orientamento (è il cosiddetto herd behaviour, o effetto gregge) e il prezzo cambia rotta. Tutti lo sanno, quindi tengono d’occhio con particolare attenzione quelle notizie, anche di relativamente scarso rilievo, che possono determinare un cambiamento di opinioni: gli ultimi dati sul mercato immobiliare statunitense o sulla produzione industriale tedesca, le ultime dichiarazioni di un ministro o di un governatore di banca centrale, gli ultimi comunicati di un’agenzia di rating (che pure di errori ne hanno fatto tanti, e colossali).

Questo spiega vari aspetti della situazione. A cominciare dal fatto che la speculazione sui titoli pubblici della Grecia è iniziata d’improvviso, e così vari mesi dopo quella sull’Italia. Fin quando nessuno si muove, io posso pensare che la situazione di quel paese sia difficile, ma aspetto che il mercato inizi a mostrare segni di preoccupazione. A muovermi prima farei un errore: come diceva Keynes, i mercati possono rimanere irrazionali molto più a lungo di quanto un operatore può rimanere solvente, se opera contro corrente; quando si vedrà che aveva ragione, lui sarà fallito da tempo. Poi, quando si muovono gli altri, io posso anche pensare che la situazione reale sia migliore di quanto non appaia dall’andamento del mercato ma mi accodo egualmente a un treno che ormai si è messo in moto. Ad esempio, personalmente ritengo che la situazione della Germania sia tutt’altro che tranquilla, forse oggi meno di quella italiana, dato il brusco rallentamento del Pil negli ultimi mesi e considerando le gravissime difficoltà delle sue banche i cui eventuali salvataggi potrebbero portare il debito pubblico a livelli molto elevati (come è già successo per gli Stati Uniti, l’Islanda o l’Irlanda); ma se provassi a muovermi ora contro i titoli pubblici tedeschi perderei probabilmente un mucchio di soldi prima che i mercati decidano di attribuire importanza alle difficoltà delle banche tedesche.

Il problema delle banche può aiutarci a capire quanto sia difficile l’interpretazione di quel che può accadere; un proverbio arabo diceva: “Chi prevede il futuro mente, anche quando dice la verità”. Secondo le stesse banche – se stiamo ai loro comportamenti e non alle loro dichiarazioni – una crisi bancaria non è improbabile: i depositi delle banche europee presso la BCE a inizio anno sono a livelli record, il che significa che le banche evitano di prestare fondi ad altre banche, rinunciando a guadagnare un margine d’interesse pur di evitare il rischio di controparte, cioè il rischio di un fallimento della banca alla quale avessero fatto un prestito. Inoltre, gli esercizi sulla solvibilità bancaria condotti dall’EBA (quelli che hanno portato a chiedere forti aumenti di capitale alle banche italiane) mostrano non solo che la situazione è difficile, ma anche quanto sia difficile attribuire la debita importanza a tutte le fonti di rischio. Basti ricordare che la banca franco-belga Dexia era risultata più che sufficiente in questi esercizi, subito prima di dover essere salvata da un’azione congiunta dei due governi.

Per non commettere errori di valutazione, la rischiosità di una banca va valutata guardando soprattutto alla leva finanziaria, cioè al rapporto tra gli attivi delle banche e il capitale proprio. Ora, la leva finanziaria è molto più alta in Germania, Francia e Regno Unito che in Italia (rispettivamente 26, 27 e 25 contro 10, il che significa che una perdita del 4% sugli asset spazza via tutto il capitale di quelle banche, mentre in Italia la perdita deve superare il 10%). Inoltre, gli asset delle banche sono una quota elevata del Pil (304% in Germania, 361 in Francia, 510 nel Regno Unito, contro 200 in Italia), per cui in quei paesi il costo di un salvataggio bancario può essere molto pesante per le finanze pubbliche.

Torniamo agli spread. La situazione è aggravata da due elementi. Primo, l’utilizzo dei derivati, che facilita la speculazione di brevissimo periodo; in particolare i CDS (credit default swaps) che Warren Buffet ha etichettato come armi di distruzione di massa. Si tratta di contratti che apparentemente assicurano dal rischio di default sul debito, il cui prezzo quindi indicherebbe la probabilità di default. In linea di principio questi titoli dovrebbero servire a garantire contro il rischio di default chi detiene titoli; tuttavia in realtà nella stragrande maggioranza dei casi questi titoli sono acquistati da chi non ha attività da assicurare, per speculare. In particolare nel caso della Gerecia importanti operazioni al ribasso tramite l’acquisto di CDS sono state compiute da una grossa banca statunitense dopo che questa aveva collocato sul mercato ingenti quantità di titoli greci. Per renderci conto di quanto la speculazione domini sui mercati finanziari, basti ricordare che l’ammontare dei derivati è oggi pari a 22 volte il Pil mondiale (20 volte per i derivati over the counter, cioè trattati direttamente tra le due controparti, 2 volte per i derivati scambiati su mercati organizzati).

Il problema è che la speculazione sugli spread può essere considerata autorealizzantesi. Infatti ogni aumento dello spread aumenta il peso degli interessi nei conti pubblici rendendo sempre più difficile mantenere la sostenibilità del debito. Per un paese come l’Italia, con un rapporto debito/pil superiore a uno, ogni cento punti base di spread in più implicano un buco nel bilancio a regime di oltre un punto di Pil.

Mario Tonveronachi ha sviluppato il concetto di sovereign Ponzi gap, poi da me ripreso in un articolo con Carlo D’Ippoliti pubblicato sul numero di settembre 2011 di Moneta e Credito (www.monetaecredito.info), ovvero la misura dell’ammontare della manovra di bilancio necessaria per stabilizzare il rapporto debito-Pil: da giugno a luglio 2011, per effetto dell’aumento degli spread, questo gap è aumentato di un punto di Pil in meno di un mese. La Grecia è affondata quando lo spread è salito oltre i settecento punti, per l’Italia grosso modo possiamo considerare valida una regola analoga. Se non vogliamo ammazzare l’economia, le manovre finanziarie per colmare i buchi di bilancio non possono superare i cinque-sei punti di Pil, anche perché oltre un certo livello si rivelano inutili, dato che il calo del reddito nazionale che inevitabilmente segue la manovra comporta un calo delle entrate fiscali. Quando lo spread determina un aggravio dell’onere degli interessi di oltre sei-sette punti di pil, il banco inizia a scricchiolare: tutti se ne accorgono, gli spread si impennano e la partita è chiusa.

Quello delle previsioni che si autorealizzano è un tipico tema della teoria keynesiana, e contrasta con le abitudini di pensiero proprie della teoria mainstream che poggiano su una forte fiducia nelle capacità autoriequilibratrici del mercato, la cosiddetta mano invisibile del mercato, spesso erroneamente attribuita ad Adam Smith.  Per interpretare il mondo in cui viviamo sono invece più adeguati concetti come la reflexivity di Soros, o il riferimento al mondo non ergodico di Davidson, o la path-dependence: cioè l’idea che gli eventi correnti hanno una forte influenza su quel che succederà in futuro; nell’ambito di questa concezione si riconosce la possibilità di biforcazioni, cioè il fatto che piccole differenze di comportamento in un dato momento possono determinare grosse differenze negli esiti finali.

3. L’attacco all’euro

Ma le autorità di politica economica, in particolare le autorità monetarie, non possono bloccare l’aumento degli spread?

Il problema in questo caso riguarda l’assetto del sistema dell’euro, un aspetto di cui in questa Tavola rotonda si occupa Alberto Quadrio Curzio, che ne ha pure scritto in varie occasioni. La BCE non ha la capacità istituzionale che hanno altre banche centrali di intervenire sui mercati dei titoli pubblici con la determinazione necessaria per sconfiggere la speculazione. La Banca d’Italia ai tempi della lira poteva decidere, nella sua autonomia, di acquistare titoli pubblici sul mercato secondario in quantità sufficiente a tenere sotto controllo i tassi d’interesse; gli speculatori, sapendolo, si comportavano con maggiore prudenza di oggi. Di fatto, la speculazione oggi preferisce scommettere contro i titoli pubblici dei meno forti tra i paesi dell’area dell’euro proprio perché si è compreso che la gestione della politica monetaria europea ha vincoli molto forti. Proprio per questo l’Italia è sotto attacco, mentre i suoi problemi di fondo sono incomparabilmente inferiori a quelli dell’Ungheria o dell’Ukraina. La speculazione internazionale ha visto tra l’altro la possibilità di far saltare l’euro e scommette su di essa. In effetti, ma non è questo il mio argomento, l’istituzione dell’euro è stata un passo al quale ne sarebbero dovuti seguire altri, sulla strada soprattutto di una vera integrazione delle politiche fiscali e monetarie con la creazione di istituzioni come una vera banca centrale dell’area in grado di sconfiggere le pressioni speculative non basate su situazioni di default acclarate.

La politica economica italiana deve concorrere a determinare un corso più ragionevole per la politica europea. Tuttavia nel determinare la politica interna di bilancio occorre purtroppo prendere come date le decisioni europee e cercare di fare quanto possibile per evitare un aumento catastrofico degli spread sui nostri titoli del debito pubblico, in una situazione che tutti possiamo considerare sub-ottimale.